C’è un tema oggi molto importante nel mondo dell’arredamento e che è indubbiamente rilevante non solo a fini produttivi ma anche per il retail: la presenza di prodotti certificati in ottica sostenibile. Una scelta che caratterizza e posiziona il brand e che offre uno strumento di prossimità e innovazione anche al retailer nei confronti di un consumatore sempre più esigente verso i temi della tutela ambientale e dell’economia circolare.
Nel settore dell’arredamento il cuore di questa rivoluzione culturale e produttiva si trova in quelli che vengono definiti “nuovi materiali”, dove occorre cioè distinguere più che la natura di un tipo di legno o di un tipo di polimero, il modo in cui questo viene lavorato. “Spesso, i materiali più antichi lavorati con le tecnologie più moderne producono i cosiddetti materiali del futuro” spiega Beatrice Spirandelli, Coordinatrice del corso in sostenibilità nel design di Interni dello IED. “Per il mondo dell’arredamento se ne possono individuare due tipologie principali: i biomateriali e i biopolimeri”.
SCARTI AGRICOLI PER I BIOMATERIALI
Quando si parla di biomateriali si parla di prodotti a base di scarti agricoli che se utilizzati in modo virtuoso e duraturo aiutano a fare progressi in ottica sostenibile. Servono per superare i limiti anche dei truciolari, etichettati (a ragione) come prodotti problematici perché, sebbene siano a base di scarti di legno, vengono aggregati con colle e resine molto inquinanti e in molti casi presentano livelli di formaldeide troppo elevati. Dal 2008, però, è obbligatorio certificare che i materiali sono a basso contenuto di formaldeide (E1) o che ne sono completamente privi (FF).
“Quello che è interessante di questi nuovi biomateriali è che azzerano l’uso di colle e sostanze tossiche e vengono realizzati solo con scarti tra cui bucce di patate, bambù, luppolo e truciolato o anche con fieno alpino, fiori, corteccia, lana di pecora” racconta Spirandelli. “Vengono per lo più importati ma esistono dei brevetti interessanti anche in Italia”.
IL FUTURO È NEI BIOPOLIMERI
Se invece parliamo di biopolimeri facciamo riferimento a materiali a base di plastica creata però da materie vegetali come barbabietola e canna da zucchero. “Attraverso l’uso delle nuove tecnologie di stampa in 3D, per esempio, i biopolimeri possono essere utilizzati per dare forma a nuovi oggetti d’arredo. La frontiera è ancora avanzata e da scoprire ma il percorso è abbastanza segnato” spiega Spirandelli.
Ancora più innovativi (e in questo caso davvero futuristici) sono i nuovi prodotti realizzati con scarti naturali (segatura, paglia, caffè) e lavorati con funghi che li trasformano in materiali da usare per arredi o anche per produrre packaging sostenibile, un altro tema caldo per il settore dell’arredamento. “Al Mit di Boston, per esempio, è stato creato il Mediated Matter Lab proprio per studiare materiali di questo tipo con cui è stata realizzata anche una mostra al MoMa di New York. In questo caso parliamo di qualcosa di ancora avvenieristico ma fa ben capire in quale direzione si stiano muovendo la ricerca e il mercato”.
I TIPI DI CERTIFICAZIONI
Tutto questo tipo di lavoro ovviamente richiede importanti investimenti in tecnologia (che non tutti possono permettersi di affrontare) ed è per questo che l’impegno nella sostenibilità dei materiali porta con sé la necessità di certificazioni perché l’investimento si trasformi, oltre che in una leva produttiva e ambientale, anche in una leva di marketing.
“A oggi esistono tre tipi di certificazioni che si differenziano in base all’indipendenza o meno di chi le emette” spiega Spirandelli. “Partiamo dalla tipo 2, che è una semplice autodichiarazione con cui l’azienda afferma di usare prodotti riciclati, privi di sostanze tossiche e di rispettare alcuni parametri di sostenibilità. In quanto tale, essendo priva di controlli esterni, non può garantire l’autorevolezza di altri tipi di certificazioni che prevedono un organismo esterno di controllo. Questo accade invece nella certificazione di tipo 3 (meglio definita come Environmental Product Declaration o EPD) realizzata da soggetti esterni all’impresa che analizzano l’intero ciclo di vita del prodotto e ne verificano l’impatto ambientale e gli standard di sostenibilità, dando quindi all’impresa stessa la possibilità di partecipare a bandi pubblici in cui questi requisiti sono richiesti come necessari. Infine, ci sono le certificazioni di tipo 1 che assegnano delle vere e proprie “etichette ambientali” da parte di organismi indipendenti spesso internazionali”.
Tra le più note c’è la Fsc (Forest Steward Council) che certifica la provenienza del legno stesso da colture ecosostenibili ed è emessa dall’omonima organizzazione internazionale non governativa (partecipata da Ong attive nell’ambiente). Oppure la Ecolabel, etichetta europea creata in seno alla UE che certifica l’impatto ambientale di alcuni beni o servizi.
Ne esistono poi altre emesse da privati, come Cradle To Cradle, che certifica un approccio alla produzione di materiali “dalla culla alla culla”, ovvero rispettosa della vita delle generazioni attuali e future perché basata su criteri di sostenibilità e di economia circolare.
EVITARE L'EFFETTO GREENWASHING
Finora nessuna di queste certificazioni è obbligatoria di per sé, ma alcune lo diventano nel momento in cui si vuole partecipare a determinati bandi o si desidera vendere i propri materiali alla pubblica amministrazione.
“La scelta della certificazione dipende dunque da diversi fattori: il mercato e la clientela di riferimento e la capacità di spesa” aggiunge Spirandelli. “Quest’ultimo aspetto non è secondario perché certificare ha un costo da mantenere nel tempo. Ecco perché per ora è rimasto appannaggio solo dei grandi brand che possono vantare certificazioni che offrono punteggi in termini di sostenibilità. Ed è anche per questo che ha poco senso certificare un solo prodotto come leva di marketing e non l’intera produzione. Il rischio di esporsi al greenwashing diventa molto elevato e il danno che questo può procurare anche al retailer in fase di vendita rischia di essere maggiore del beneficio di una certificazione”.
Costosa, ma che potrebbe rivelarsi un boomerang se limitata a un bene e non a tutta la produzione.